Parto da un una affermazione di principio per chiarire la mia posizione, assolutamente a favore degli investimenti nei mercati privati: questi investimenti possono essere, con le dovute misure, nei portafogli di tutti gli investitori. Ma nel seguito di questo contributo mi concentrerò sulle “dovute misure” per quanto attinenti a valutazione e rischio.

Nella mia precedente esperienza lavorativa, sono stato tra i primi a portare questa asset class a investitori istituzionali italiani, già nel 2002, e a investitori individuali nel 2005. Si trattava sia di limited partnership, nella loro forma più tradizionale, veicoli del Delaware, che investivano in fondi o direttamente nei mercati privati globali, che di veicoli di permanent capital quotati. La scelta di target di investimento era già ampia: real estate, infrastrutture, buyout, growth, venture, Messico, Us, Giappone, Europa, Africa, Asia, per fare degli esempi.

Da quelle esperienze di investimento, si possono trarre alcuni insegnamenti.

Prezzo e valore

Il prezzo può divergere dal valore. E la divergenza può essere solo molto limitatamente giustificata da enfasi di obiettivi di “bene comune”, esternalità positive da investimento nell’economia reale, da creazione di occupazione, etc.

L’obiettivo di chi gestisce investimenti “in modo fiduciario”, ovvero è agent e non principal (e quindi non ha capitale a rischio se non in modo imitato), è investire il denaro con una logica di rendimento aggiustato per il rischio.

Se il prezzo è alto rispetto alla stima del valore (fair value), il rendimento che sarà realizzato potrebbe non essere all’altezza delle aspettative. Questo perché il rendimento dipende dal valore realizzato (mark to market), che è sempre un prezzo pagato da terzi al netto di eventuali precedenti distribuzioni di cassa. Al di fuori di questa circostanza, si parla di paper gain, guadagno sulla carta.

Mi si dirà che sono vecchia scuola, sic transit gloria mundi, ma personalmente rimango ancorato al concetto che il valore degli investimenti sia legato alla loro capacità di generare cassa.

Private equity, venture capital, startup, crowdfunding & co

Per quanto tutte queste categorie di investimento oggi ricadano sotto la casa comune degli investimenti in economia reale, la realtà o realizzabilità delle loro valutazioni richiede delle distinzioni sostanziali.

La differenza emerge in maniera molto evidente recuperando due dei cardini fondamentali della valutazione di azienda nel corporate finance: la crescita della cassa e il terminal value. Se la crescita della cassa è un concetto facile da comprendere, perché al netto di investimenti straordinari è proprio la crescita del saldo delle attività liquide e distribuibili all’investitore (il cui capitale a rischio sarebbe conseguentemente ridotto in caso di effettiva distribuzione di dividendi o di riserve a valere sulla cassa) il terminal value è un concetto con contorni (scherzosamente) metafisici.

Il terminal value è un cash flow sintetico in cui si racchiude fino a oltre il 90% dell’azienda. Lo si stima capitalizzando al tasso di sconto prescelto al netto del tasso di crescita di lungo termine dell’azienda (spesso quello del prodotto interno lordo nazionale) il flusso di cassa normalizzato di lungo termine, di steady state.

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